Milano, 1975.
ferro grezzo
dimensioni variabili
“L’opera è composta da 49 pezzi di ferro, scarti di lavorazione trovati, con attenta ricerca, in grossi contenitori di ditte che si occupano del taglio laser di lastre di ferro. La forma finale viene condizionata dal luogo in cui la scultura viene posata e, contemporaneamente, ciascun pezzo di ferro agisce come guida nel costituirsi via via dell’opera. Ogni frammento rappresenta la storia di un individuo. Hanno tutti una loro forma, una loro grandezza e tutti possono essere guardati da molte prospettive. Vuole essere una denuncia, un grido di allarme. Lasciare 49 migranti per 19 giorni in balia delle intemperie, con tre bambini piccoli, in pessime condizioni di salute e di vita, è davvero deplorevole. Eppure, con 49 persone si può formare un’opera d’arte”.
Il mio lavoro è una continua attenzione per recepire, cogliere, selezionare, individuare ogni possibile traccia del vissuto che contenga in sé un potenziale di mobilità. Anche la più piccola scheggia di ferro che entra nel mio lavoro, ci entra perché aveva in sé qualcosa che la predisponeva al movimento, a parteciparvi. Il mio fare consiste nel manipolare il materiale con le mani. La manipolazione risponde alle indicazioni che stanno dentro ai materiali. Il progetto dell’opera è per me una continua interrogazione con il desiderio dell’opera. Chiedo nello stesso momento in cui mi sto rispondendo. Sento l’arte come un movimento che ho bisogno di avere, incessante e sempre vivo, gratificante. Le varie singole scelte, ciascun atto, le più minute selezioni, non possono non essere sostenute che da una tensione positiva. Certo, mi interessa assai il risultato finale, ma per arrivare al mio risultato ‘speciale’ è anche importante il processo. Il progetto è nel processo. C’è un punto in cui l’opera mi si dà, mi è uscita dalle mani, è là, e io posso riconoscerla come fatta.